UNI EN ISO 14021: un percorso credibile per combattere il greenwashing

Il termine greenwashing è diventato di uso così comune che è alquanto inusuale vedere utilizzata la traduzione italiana “darsi una lavata di verde” per identificare l’atteggiamento di chi intende trasmettere al mercato un’immagine di grande impegno a favore dell’ambiente senza supportare tale messaggio con impegni e azioni concrete.

Vi è il rischio che tali comportamenti siano destinati ad aumentare dal momento che l’uso della leva ambientale per la promozione dei prodotti ha assunto ormai un’evoluzione estremamente rapida.

L’immagine bucolica di un pescatore con la barchetta a remi in un lago, utilizzata in modo innovativo solo qualche decennio fa per promuovere un detersivo a minore impatto sull’eutrofizzazione delle acque superficiali, è stata riposta negli archivi storici della comunicazione ambientale e il consumatore contemporaneo la percepirebbe solo in chiave naïf.

Oggi quell’esperienza sembra lontana anni luce e il green marketing (altro termine inglese che difficilmente troverà un’alternativa nel vocabolario italiano) è ormai una realtà consolidata per la promozione di ogni tipologia di prodotto. Non è infatti possibile sfogliare un giornale, guardare un programma televisivo o attraversare le vie di una città senza imbattersi in numerose pubblicità che utilizzano la leva ambientale come driver principale del messaggio di promozione del prodotto.

È naturale che questo proliferare di messaggi in chiave ambientale generino nel consumatore dubbi sulla credibilità di quanto viene comunicato in modo diretto o implicito e, di conseguenza, su quella dei prodotti promossi e delle rispettive aziende produttrici.

Si tratta in realtà di un elemento di potenziale criticità con cui altri paesi, caratterizzati da una più consolidata sensibilità ambientale, hanno già avuto modo di iniziare una riflessione negli anni passati.

Tali esperienze hanno contribuito a stimolare in ambito ISO la consapevolezza di quanto sia delicato il tema della comunicazione ambientale in generale e soprattutto di quella legata alla promozione dei prodotti presentati come caratterizzati da un minore impatto. Per tale ragione all’interno del Comitato Tecnico ISO/TC 207, chiamato a sviluppare la normativa sulla gestione dei temi ambientali, esiste già dal 1993 un apposito sottocomitato (SC3) dedicato proprio al tema delle etichettature ambientali. In quest’ambito è stato sviluppato lo standard ISO 14024 che descrive i requisiti delle etichette ambientali di tipo I, o label, ormai diffusissime nel mercato internazionale, quali l’Angelo blu tedesco, il Cigno bianco dei paesi scandinavi o la stessa etichetta Ecolabel dell’Ue. Sempre all’interno dell’SC3 è stata realizzata la norma ISO 14025, relativa alle etichette ambientali di tipo III, meglio conosciute con il corrispondente acronimo inglese EPD, che hanno avuto una importante diffusione in Italia, grazie all’internazionalizzazione dell’originario schema svedese (www.environdec.com)

Meno nota è invece probabilmente la norma ISO 14021 di cui l’UNI ha appena ultimato la traduzione italiana della versione aggiornata recentemente pubblicata dall’ISO.

La UNI EN ISO 14021 norma le asserzioni ambientali auto dichiarate, o di tipo II, ed è supportato da un sistema di etichettatura meno codificato e strutturato rispetto a quello previsto dalle due norme sopracitate.

Ciò aveva portato a considerare fino ad oggi la norma UNI EN ISO 14021 come una sorta di figlia minore tra le etichette ambientali di prodotto sviluppate all’interno dell’SC3. Alla base di tale convinzione vi era forse l’idea che il mercato avrebbe riconosciuto e quindi premiato le etichette sviluppate all’interno di sistemi molto codificati e capaci di fornire alti livelli di garanzia. Oggi però sembra affacciarsi una tendenza nettamente diversa. Se da un lato i sistemi molto codificati dovrebbero riuscire ad assicurare elevate garanzie al mercato, dall’altro sono necessariamente caratterizzati da una minore flessibilità sia nella tipologia degli strumenti resi disponibili e sia nella loro capacità di gestire le comunicazioni con  tempi di celerità pari alle richieste di un mercato che spinge con sempre maggiore forza l’acceleratore dell’innovazione, anche in questo settore.

Le necessità delle aziende di comunicare informazioni ambientali sono, infatti, sempre più rapide e mutevoli, per riuscire a rispondere adeguatamente a una clientela esigente e per cercare di anticipare le strategie ambientali dei propri concorrenti. In un contesto di sempre maggiore competitività sui temi ambientali le etichette di tipo II della UNI EN ISO 14021 potrebbero costituire un eccezionale quadro di riferimento.

Avere un sistema più flessibile e meno codificato non deve però significare una diminuzione dell’affidabilità della comunicazione dal punto di vista ambientale e non deve pertanto consentire uno sviluppo in totale assenza di regole, con logiche di completa deregulation che possano in qualche modo arrivare a legittimare il greenwashing.

Perché si possano sviluppare delle modalità di comunicazione credibili è fondamentale che siano però stabiliti una serie di punti fermi.

La norma, ad esempio, chiarisce come non debbano essere utilizzate delle asserzioni ambientali vaghe e non specifiche basate sul concetto generico che un prodotto possa essere benefico per l’ambiente. È esplicitamente richiesto di non utilizzare frasi come “sicuro per l’ambiente”, “amico dell’ambiente”, “amico della terra”, “non inquinante”, “verde”, “amico della natura” e “amico dell’ozono”.

Allo stesso modo non deve essere fatta alcuna asserzione rispetto alla sostenibilità di un prodotto, in quanto i concetti legati alla sostenibilità di un prodotto sono molto complessi e non esistono ancora metodi definitivi per la sua valutazione.

Già questo breve elenco di esempi da non utilizzare rende palese come l’adozione sistematica della UNI EN ISO 14021 consentirebbe di fare una grande pulizia di un tipo di comunicazione generica, non verificabile e non supportabile da fatti che è alla base del greenwashing e che purtroppo riconosciamo sia presente da tempo in numerose campagne pubblicitarie e sulle confezioni dei prodotti.

Per cercare di fornire delle chiare indicazioni su come sviluppare una corretta comunicazione ambientale, pur basata su asserzioni auto-dichiarate, la norma entra nel merito di una serie di concetti di rilevanza ambientale particolarmente interessanti a livello di mercato, descrivendo nel dettaglio l’utilizzo del termine specifico, il suo significato e le metodologie di valutazione. Sono presenti, ad esempio, concetti quali: compostabile, degradabile, riciclabile, contenuto di riciclato, consumo energetico ridotto, utilizzo ridotto delle risorse, consumo idrico ridotto, riutilizzabile e ricaricabile.

La nuova integrazione recentemente pubblicata introduce anche il concetto di energia rinnovabile e altri legati alle emissioni di gas a effetto serra, tra cui quella di Carbon footprint di prodotto o impronta climatica del prodotto (CFP).

Proprio la possibilità di comunicare la CFP conformemente alla UNI EN ISO 14021 potrebbe trovare un grande interesse nel mercato italiano e, di conseguenza, portare a una notevole diffusione dello standard.

Questo soprattutto dopo il recente voto positivo sulla ISO/TS 14067 che, dopo un percorso particolarmente complesso di sviluppo, ha portato finalmente ad avere il riferimento normativo unico a livello internazionale per la CFP che tutti aspettavano.

La ISO/TS 14067 tratta in dettaglio la fase di quantificazione della CFP, ma ha anche un’ampia sezione dedicata alla comunicazione.

Per ragioni abbastanza complesse, che richiederebbero troppo spazio all’interno di questo testo, alla fine si è deciso di mantenere all’interno della ISO/TS 14067 solo le modalità di comunicazione molto strutturate, che in termini semplificati possono essere considerate sovrapponibili alle etichette di tipo I e III. L’avere escluso le asserzioni auto dichiarate di tipo II rimanda, di fatto, completamente la palla della loro gestione all’interno dell’ambito di applicazione della UNI EN ISO 14021.

Questa possibilità diventa essenziale per le realtà in cui non sono in essere schemi nazionali per le etichette di tipo I e III e si ritiene comunque troppo oneroso realizzarne uno ad hoc per la CFP, come nel caso dell’Italia.

Nel nostro paese la UNI EN ISO 14001 potrebbe trovare uno spazio interessante proprio per la CFP, visto che il precedente Ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha incentrato buona parte del suo mandato proprio alla promozione della CFP per i prodotti di largo consumo, finanziando un paio di bandi ad hoc per progetti pilota su questo tema, oltre a firmare numerosi accordi volontari con aziende che hanno deciso di impegnarsi in prima persona nello sviluppo della CFP.

È però da notare che per tali progetti il supporto del MATTM è stato normalmente focalizzato al supporto tecnico per la fase di quantificazione, dal momento che l’interesse sembrava focalizzato a creare adeguate competenze per sviluppare la CFP e a creare la cassa di risonanza necessaria su queste iniziative per “smuovere il mercato”.

Quando però tali progetti sono stati conclusi e le aziende hanno iniziato a manifestare la volontà di comunicare i risultati degli studi di CFP sono nati i primi problemi.

Si tenga conto, per inciso, che la travagliata storia dello sviluppo della ISO/TS 14067 è legata principalmente alla conflittualità che ha attraversato il tema della comunicazione, considerato il delicatissimo equilibrio che teneva insieme le esigenze delle diverse parti interessate in gioco. Da una parte il legittimo desiderio delle aziende di comunicare all’esterno il dato della CFP, fino a offrire a questo numero un ruolo da protagonista nella complessa regia dei diversi messaggi da veicolare. Dall’altra la consapevolezza dei rappresentanti dei consumatori che riconoscono nel CFP solo una parte dell’impatto ambientale complessivo del prodotto e, in ogni caso, sanno che la LCA alla base del suo calcolo è una metodologia molto potente e affascinante ma caratterizzata da un certo margine di incertezza, che non deve essere nascosto al consumatore.

Purtroppo molti esempi di comunicazione che hanno iniziato a circolare sulla CFP in Italia non rendono giustizia a questa delicata esigenza di equilibrio, portando talvolta a promuovere il numero che caratterizza il risultato della CFP come unico dato importante e senza l’indispensabile supporto delle informazioni di background, necessarie a meglio chiarire il lavoro svolto. A volte si è fatto addirittura l’errore di confondere la CFP con gli inventari di GHG di un’organizzazione, errore che risulterebbe inaccettabile anche al meno esperto dei partecipanti dei gruppi di lavoro ambientali dell’UNI, ma che hanno invece talvolta trovato spazio nelle pagine dei giornali con forti messaggi promozionali.

Confusione in campo di GHG è stata fatta anche dai verificatori, visto che in alcuni casi sono arrivati ad indicare il tipo di norma utilizzato per la verifica GHG (UNI EN ISO 14064-3), dimenticando purtroppo di indicare il riferimento della norma oggetto della verifica stessa.

Vista la crescente attenzione che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato sembra dedicare all’uso di messaggi ingannevoli in campo ambientale, è possibile che i prossimi mesi possano vedere il proliferarsi di ulteriori sanzioni in questo delicato settore a sottolineare i peggiori esempi di greenwashing.

In assenza di uno specifico programma nazionale sulla CFP sarebbe forse il caso di valutare la possibilità di utilizzare la UNI EN ISO 14021 per la comunicazione della CFP al di fuori di programmi specifici, arrivando magari a costruire anche un apposito schema di accreditamento da parte di Accredia.

In ogni caso è fondamentale che cresca l’attenzione del mercato nazionale per le norme UNI EN ISO sulle etichette ambientali di prodotto, incrementandone la conoscenza e l’utilizzo e dandone evidenza della loro applicazione direttamente sul prodotto, per una maggiore trasparenza verso i consumatori.

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