L’impronta climatica dei prodotti

Il cambiamento climatico è un fenomeno percepito in modo molto diverso da parte del mondo scientifico e di quello politico.

I primi lanciano ormai all’unisono il loro disperato grido di allarme per il sempre più rapido mutare della temperatura, basandosi su numerosissimi dati oggettivi sia in termini geografici e sia su scala temporale.

Le conseguenze attese per il pianeta in termini d’impatto sull’ambiente e sulla vita dell’uomo portano così a chiedere azioni di ampie dimensioni da attuare subito e mantenere nel tempo.

Il politico è invece in genere portato a traguardare a un arco temporale di pochi anni, spesso legato a precise scadenze elettorali. Ciò rende difficile l’adozione d’interventi che richiedono sacrifici immediati ma i cui risultati, e il relativo ritorno che ne consegue in termini di visibilità, si potrà avere solo in tempi che vanno ben oltre la durata del loro mandato e quindi poco spendibili in termini di consenso elettorale.

Ne deriva un cortocircuito tra la necessità e la capacità di attuare una decisa azione di contrasto al cambiamento climatico che risulta poco edificante in termini di prospettive future.

Allo stesso tempo però a livello di opinione pubblica si registra una crescente consapevolezza che la realizzazione di un’economia a minor contenuto di carbonio sia ormai diventata una necessità inevitabile.

Davanti all’incapacità dei decisori politici di imporre adeguati interventi top-down, iniziano così a farsi largo dal basso, o con approccio bottom-up, alcuni interessanti strumenti di mercato.

Tra questi, quello che sta riscuotendo maggiore successo a livello internazionale è la Carbon Footprint of Product (CFP), o Impronta climatica di prodotto.

Si tratta di uno strumento in grado di calcolare le emissioni di gas serra (GHG) legate all’intero ciclo di vita di un prodotto o, come si usa sintetizzare, “dalla culla alla tomba”.

In sostanza vengono calcolate le emissioni di GHG generate per l’estrazione delle materie prime, il loro trasporto nel luogo di produzione del prodotto, la sua realizzazione, la fase di utilizzo e lo smaltimento finale. Il numero totale che ne risulta riesce così a rappresentare quanto un prodotto contribuisce ad impattare sul cambiamento climatico, o appunto quale sia la sua “impronta”.

Alla base di questo calcolo vi è una metodologia utilizzata da molti anni, denominata Analisi del ciclo di vita del prodotto, ma normalmente conosciuta attraverso l’acronimo inglese LCA.

Questo strumento era in genere utilizzato per valutare l’intero spettro degli impatti ambientali di un prodotto, ma la crescente attenzione verso il cambiamento climatico ha fatto si che l’attenzione si focalizzasse sulla singola categoria d’impatto, legata appunto al riscaldamento del pianeta.

È importante quindi ricordare come bassi valori di Impronta climatica non possono essere equiparati al concetto di basso impatto ambientale, essendo presa in considerazione una singola categoria d’impatto.

Nonostante ciò è indiscusso come l’assoluta gravità del tema climatico richieda l’ampio e rapido sviluppo di strumenti in grado di trovare ampia diffusione a livello di mercato, per facilitare il passaggio alla già citata economia a basso contenuto di carbonio.

I riferimenti normativi e le esperienze iniziano a essere ormai numerosi nel panorama internazionale, a partire dallo sviluppo in Inghilterra della PAS 2050, pubblicata dall’ente di formazione BSI su mandato di soggetti di derivazione pubblica come l’agenzia per l’ambiente Defra e il Carbontrust.

Alla PAS 2050, di cui è già attesa la pubblicazione della prima revisione, si affiancherà ad inizio del 2011 anche lo standard in fase di pubblicazione da parte del WRI e del WBCSD, associazioni private espressione del mondo produttivo più attento alle logiche dello sviluppo sostenibile.

Anche il mondo ISO sta lavorando ad una norma specifica per il CFP. Si tratta della ISO 14067, la cui pubblicazione è attesa per il primo semestre del 2012. Come spesso accade in questi casi a livello italiano è stato creato un gruppo di lavoro ad hoc per seguire e contribuire allo sviluppo dello standard, la cui partecipazione è aperta a tutte le parti interessate.

Nel frattempo le esperienze di applicazione della CFP si moltiplicano in tutto il mondo, dal Giappone agli USA, passando per Corea, Svizzera, Tailandia, Francia, Taiwan, Germania e addirittura la stessa Cina.

Molto varia è anche la modalità con cui vengono comunicati i risultati della CFP, spaziando tra le diverse modalità previste dalle norme della serie ISO 14020.

La Svezia, ad esempio, ha scelto di optare per uno schema simile a quello in essere per le dichiarazioni ambientali di prodotto, note con la sigla EPD, basato su un documento sintetico in grado di descrivere i risultati della CFP.

Giappone e Corea per un’etichetta da inserire sul prodotto per evidenziare direttamente il valore complessivo della CFP.

La Svizzera, invece, per un logo di eccellenza, denominato Climatop, da attribuire solo a chi possiede le caratteristiche migliori per categoria di prodotto in termini di CFP.

Infine la Gran Bretagna con il “Carbon Reduction Label” per chi si impegna a ridurre nel tempo le proprie emissioni di GHG.

Un panorama estremamente vario, accomunato però dalla volontà di favorire la commercializzazione dei prodotti a basso contenuto di CO2.

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