La metafora del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto non può essere utilizzata questa volta per descrivere l’esito della COP. Il bicchiere è risultato, anzi, talmente asciutto da minare alla base la funzione stessa del grande consenso internazionale.
Davanti al grido di allarme sempre più disperato contenuto nei rapporti scientifici sul clima e le urla a squarciagola dei giovani di Fridays for Future nelle piazze di tutto il mondo, o il “now, now, now!” dei ragazzi di Extinction Rebellion incatenati ad una barca davanti all’ingresso della COP, la politica mondiale è stata solo in grado di abbassare lo sguardo e ammettere con un filo di voce la propria inadeguatezza.
Parte del problema è legata ad un processo negoziale basato sul consenso, dove l’opposizione sostenuta da parte di un singolo paese può bloccare ogni progresso. E al tavolo di guastatori, ben determinati e neanche tanto mascherati, ce n’erano più di uno.
Dagli USA, guidati da un presidente che ha formalizzato la volontà di uscire dall’accordo di Parigi, all’Australia dove il Primo ministro conservatore Scott Morrison ha scalzato nell’agosto 2018 il compagno di partito Malcolm Turnbull, proprio per l’impegno di quest’ultimo a favore del cambiamento climatico. Due paesi in cui le lobby dei combustibili fossili sono forti e determinate a bloccare ogni percorso verso un futuro a basse emissioni di CO2.
C’è poi il Brasile di Bolsonaro, caratterizzato da un impressionante inversione di rotta nella gestione dell’Amazzonia rispetto ai precedenti governi, che ha forse rappresentato il paese più retrogrado in questa COP. Paese in cui stanno accadendo cose di una gravità assoluta, con un’ondata di assassini di indios e attivisti e minacce verso i giornalisti che trova purtroppo ancora troppo poco spazio nei media e tra l’opinione pubblica di tutto il mondo.
Del resto Ricardo Salles, il Ministro dell’Ambiente brasiliano, è noto per le sue posizioni negazioniste sul clima e non dovrebbe quindi sorprendere la forte opposizione che la sua delegazione ha fatto nella plenaria finale per cercare di bloccare l’inserimento nel testo del “Chile Madrid Time for Action” dei due articoli 30 e 31 dal tenore puramente scientifico. In essi si sottolineava l’importanza degli oceani, come parte centrale del sistema climatico della terra per i quali è necessario assicurare l’integrità degli ecosistemi marini e costieri, e si chiedeva di avviare un dialogo in occasione del prossimo incontro preparatorio della COP26 a giugno, per capire come poter rafforzare l’azione di mitigazione e adattamento in questo contesto.
È evidente come di fronte alla volontà di bloccare anche solo il dialogo su come affrontare il tema degli oceani e delle zone costiere sia impensabile sperare di ottenere impegni ed azioni concrete.
Si arriva così alla plenaria finale con due giorni di ritardo, record negativo di sempre, e con la Presidente della COP, la cilena Carolina Schmidt, che piegata dalla stanchezza cade per due volte in un lapsus poco incoraggiante. Ha annunciato l’avvio dei lavori del 25esimo secolo anziché della 25esima COP, trasferendo involontariamente l’immagine di una politica bloccata per secoli dall’incapacità di costruire un’azione globale contro il cambiamento climatico.
Ad aumentare la confusione anche un sistema informatico dell’UNFCCC andato completamente in palla, con documenti ufficiali non disponibili nel sito ufficiale e costretti ad essere caricati in una cartella dropbox resa accessibile temporaneamente all’esterno. Al suo interno documenti caricati nella versione corretta solo nel corso del dibattito, senza dare così la possibilità ai delegati di poterli leggere e studiare con calma.
Tutto questo in una sala che si vuotava inesorabilmente come una clessidra, con paesi privi di rappresentanza o con delegazioni ridotte a uno o due rappresentanti.
Il punto centrale di questa COP era l’art. 6 dell’Accordo di Parigi, finalizzato a descrivere le regole con cui costruire i nuovi strumenti di mercato quale evoluzione, ad esempio, del CDM o dell’Emission trading. Tema cruciale, posizionato giusto al centro tra l’esigenza di favorire le azioni di mitigazione delle emissioni di GHG nei paesi in cui costano meno, massimizzando così la riduzione globale delle emissioni, e il rischio di doppio conteggio e quindi di greenwashing. La conclusione di due settimane (più due giorni extra) di discussione è stata: se ne riparlerà alla prossima COP26 di Glasgow.
Niente di fatto neanche sul Loss and Damage, meccanismo di aiuto per i paesi poveri in cui la situazione è così degradata che neanche più l’adattamento al cambiamento climatico è possibile. Così come niente è stato ottenuto sul fronte della finanza di lungo termine, anche questa rimandata alla prossima COP26.
Fin troppo chiaro il messaggio del rappresentante di Tuvalu, isole del Pacifico che toccano ogni anno con mano l’innalzamento del livello degli oceani. Lo stesso delegato che nel 2009 aveva contribuito a non far passare un Accordo di Copenaghen vuoto negli impegni, se non nella disponibilità del mondo ricco di rendere disponibili 30 miliardi per i paesi in via di sviluppo, richiamando in modo biblico la non disponibilità a vendere il proprio popolo per trenta denari, ha lanciato un dardo verso gli USA di Trump.
Gli USA avevano proposto di mettere sotto l’Accordo di Parigi, invece che l’UNFCCC, il meccanismo di aiuto ai paesi poveri in difficoltà del Loss and Damage. Il capo delegazione delle isole del Pacifico ha sottolineato però che questo significherebbe escludere da ogni responsabilità chi non farà parte dell’Accordo di Parigi, leggi USA, con un atteggiamento di deresponsabilizzazione proprio da parte di uno dei principali responsabili storici del cambiamento climatico; atteggiamento che è arrivato a descrivere come un vero e proprio crimine verso l’umanità.
In questo fallimento generale della politica internazionale c’è però da segnalare l’importante passo avanti dell’Unione europea che con il Green Deal presentato mercoledì scorso, in cui si dichiara la propria volontà di arrivare ad emissioni zero entro il 2050 con uno scenario al 2030, non ancora definito nel dettaglio, sicuramente più ambizioso dell’attuale impegno a ridurre le emissioni del 40% molto probabilmente maggiore del 50%.
La Ue ribadisce la volontà di un impegno ambizioso sul cambiamento climatico che non deve essere visto come utopistico, ma assolutamente raggiungibile e capace di far evolvere in modo positivo la nostra società. Possibilità pienamente comprensibile per chi ha frequentato le sale della COP nelle scorse due settimane, dove all’incapacità della politica di trovare soluzioni negoziali condivise si è contrapposta l’evidenza di un sistema economico e di politiche regionali decisamente orientate ad un grande e rapido cambiamento.
Non sorprenderà quindi di vedere crescere in modo molto significativo nei prossimi mesi il dibattito a livello europeo su un sistema di dazi per sfavorire l’ingresso di prodotti provenienti da paesi che non aderiscono agli accordi sul clima. Perché il cambiamento è già in atto e l’inefficacia della COP non potrà certo fermarlo.




